Mi trovo in Versilia, Lido di Camaiore, ospite della cara amica Gianna Albini Bigazzi. Dopo aver avuto per puro caso il contatto di Giorgio Dolce da un musicista/collezionista conosciuto in un noto negozio di dischi di Viareggio, una mattina di metà agosto lo chiamo e lui, appena comincio a parlargli di Mimì, mi invita nella sua casa di Viareggio per fermarsi a parlare da vicino e molto volentieri degli esordi di Mia Martini. Giorgio, con grande trasporto, ne fa venire fuori tutta la sua grandezza di artista e di musicista completa e non solo la classica figura della “semplice” cantante.
“Per il suo modo di cantare era un’artista internazionale, a mio parere avrebbe potuto e dovuto avere un progetto alle spalle molto più ambizioso e non limitarsi solo alla canzone d’autore o al melodico italiano. Mia Martini sapeva cimentarsi, con risultati egregi, con tutto! Cantava soul in una maniera splendida, cantava jazz, cantava tutto… e tra l’altro, cosa da sottolineare, in una chiave assolutamente moderna. Mina, che è una pietra miliare, è più legata al jazz della tradizione, ma non avrebbe mai potuto cantare Janis Joplin. Mia Martini sì! Infatti si sente dalle quattro registrazioni che abbiamo effettuato insieme: I’ve got a feeling, No sugar tonight, Funk 49 e We can work it out. Lei in Funk 49 ha fatto una variazione, oserei dire hendrixiana, che nell’originale non esiste… Mentre facciamo il cosiddetto fraseggio con le chitarre, lei si cimenta in delle cose assolutamente innovative, estremizza il brano che, a un certo punto, sembra esplodere. Se, invece, ascolti l’originale rimane sempre lo stesso dall’inizio alla fine”.
“La sua potenza, il suo grandissimo valore aggiunto, è che lei cantava come una musicista e non solo come una semplice cantante. Qua sta la differenza con le altre. Spesso ho detto questa cosa alle cantanti con cui ho avuto a che fare dopo di lei: Mia Martini entrava nella musica in un modo assolutamente naturale, non c’era bisogno di spiegarle niente, per noi musicisti era una goduria suonare con lei. Attaccavi a farle un’armonia e lei aveva già capito il senso di quello che stavi facendo, dove volevi andare a parare e insieme stravolgevamo letteralmente tutti i brani. Gli arrangiamenti erano miei, ma in tutta tranquillità si può dire che erano anche suoi per il suo modo di cantare, e sono venuti fuori con naturalezza, in presa diretta, senza la necessità di consumarsi in ore e ore di scrittura e di prove”.
A quando risale il tuo primissimo incontro con Mia Martini, che (se non sbaglio) si chiamava ancora Mimì Berté?
“Risale al 1970, è venuta al Piper 2000 di Viareggio, accompagnata dal suo produttore Alberigo Crocetta che le aveva da poco cambiato il nome da Mimì Berté a Mia Martini. Stavamo provando, eravamo un po’ scettici perché pensavamo fosse la classica cantante melodica, e a noi questa storia non piaceva affatto (ride), non eravamo interessati. Lei è salita sul palco e, a sorpresa, ci ha chiesto: “ragazzi cosa si fa?”. Poco prima che entrasse stavamo suonando un brano dei Doors, Light my fire che lei ha cantato alla grande, come se nulla fosse, senza battere ciglio. Ci ha dato i brividi, a fine esecuzione eravamo tutti elettrizzati a chiederci quella marziana da dove fosse sbucata fuori…”.
Dal 29 maggio al 2 giugno del 1971 si tenne nella pineta di Lagomare, a Torre del Lago, vicino a Viareggio, il I Festival della Musica di Avanguardia e Nuove Tendenze, organizzato da Massimo Bernardi. Mia Martini accompagnata dal complesso La macchina si impose e vinse con Padre davvero…
“Esattamente. Inizialmente ci chiamavamo I Posteri ed eravamo io alla chitarra, Riccardo Caruso alle tastiere, Giovanni Baldini al basso e Daniele Cannone alla batteria. La accompagnavamo con un repertorio di oltre quaranta canzoni tra i generi più disparati come il rock, il jazz, il beat e il pop e Mimì veniva annunciata, anche sul manifesto ufficiale del tour, come la Julie Driscoll italiana. Per il Festival di Viareggio che hai citato, su suggerimento di Alberigo Crocetta, mutammo il nome in La macchina che compare anche sul suo primo quarantacinque giri, anche se in realtà non siamo stati noi a suonare in sala di registrazione perché per dei dissidi interni con altri elementi del gruppo decidemmo, anche se non ero d’accordo, di proseguire il nostro percorso artistico diversamente. Con piacere per il tuo libro metterò a disposizione foto e memorabilia che testimoniano questa nostra breve – ma intensa ed indimenticabile – collaborazione”.
Intervista tratta da Martini Cocktail, Edizioni Melagrana 2019.